Alessandro Graziani tra inventario del visibile, invenzione e memoria di Pietro C. Marani Siamo ormai abituati a guardare alla pittura come ad un inventario del presente: dal recupero degli oggetti quotidiani, alla loro manipolazione, alla loro nuova qualificazione semantica nell’operazione tutta mentale di una trasposizione visiva che si avvale dei mezzi tecnologici anziché dei media tradizionali. Sigmar Polke, ad esempio, come una carta moschicida secondo Robert Storr, accumula sulle sue superfici ogni oggetto che cade sotto al suo sguardo. Gli artisti contemporanei, spesso nipoti dei nouveaux realistes, non hanno esitato a prendere in prestito dal nostro quotidiano anche le cose più orrende, presentandole talvolta nel loro disfacimento fisico, evocando il disfacimento dei valori e della civiltà contemporanea ( Damien Hirst ). Scarti della produzione industriale, ferri arrugginiti, dipinti o fotografati, oppure frutta e fiori che marciscono, in una sequenza video, possono mostrarsi mentre fioriscono di muffe, mentre si gonfiano, e poi ritornano la terra che erano e che gli aveva dato vita. Ma il passato può talora costituire un terreno di caccia e l’artista, come un argonauta, compie un viaggio nella memoria e va alla ricerca delle chiavi per comprendere il presente, per comprendersi e per giustificarsi. L’artista può attingere così al repertorio infinito dell’arte dei secoli precedenti: tanto è già stato inventato e dipinto, e fotografato, che egli non deve far altro che impossessarsi di quelle immagini, farle proprie, riconnotarle, accettarle o scartarle, magari rilavorarle con il pongo o la forbice ( Stefano Arienti ). Qualche altro viaggiatore intende l’arte con un’accezione talmente ampia da abbracciare tutto ciò che caratterizza la vita quotidiana: essere fotografati mentre si chiacchiera o si beve un drink, mentre si scarabocchia sulla tovaglia di carta, mentre si dorme o si fa sesso, l’identità tra arte e vita non ha mai raggiunto, come adesso, il suo maggior momento di gloria. Una drammatica sequenza di diapositive ( Nan Goldin ) può dirci molto di una vita, ed essere assunta a paradigma dell’esistenza umana, così come l’esibizione del proprio corpo, i riti ancestrali e l’uso e l’abuso fatto di esso ( Marina Abramovich ), dichiarano immortali i concetti fondamentali attorno ai quali ruota l’esistenza umana: nascita, condizionamenti, malattia, amore e morte. Anche gli aspetti più futili e superficiali dell’esistenza, come la moda o il design, possono dunque rendere noti alcuni dei moderni meccanismi attorno ai quali ruota la nostra esistenza e che si possono assimilare ad una ritualità pagana: fare shopping, vestirsi in un certo modo, sono un’espressione di body-art, come truccarsi o essere assillati dall’idea di dimagrire: agire sul proprio corpo, forgiarlo e modellarlo, vestirlo, nutrirlo altro non sono che forme di arte al più basso livello, però enormemente diffuse, enormemente imitate, duplicate, riprodotte ( Gilbert and George ). L’originalità dell’opera di Alessandro Graziani sta nell’aver combinato tutte queste diverse accezioni del fare arte. Nelle sue grandi tele, egli ha addensato tutto quello che egli ha incontrato nella sua esistenza e tutte le esperienze umane, sociali, religiose, artistiche, industriali con le quali è entrato in contatto. Nelle sue vite precedenti egli è stato designer, stilista, uomo d’affari, viaggiatore, osservatore dei riti contemporanei basati sulla moda e il consumismo. Nella sua vita presente egli si è scoperto artista e ha scavato dentro a sé e ha trovato, all’origine di se stesso, la figura di suo nonno, insigne pittore napoletano, e una quantità di altri Io coi quali confrontarsi: quello che proviene da un altro continente e da un’altra religione, quello che dialoga con le remote civiltà e che decifra le scritture antiche, al punto da impossessarsene ed inventare un suo personale alfabeto, quello che si compiace di riprodurre i simboli del consumismo più sfrenato, il lusso delle automobili, dei luoghi alla moda, California e Città del Messico, Palm Beach e Capri, dei vestiti costosi e firmati. Finalmente, ha trovato un modo originale per dare forma visiva a questa sua enciclopedia del mondo attuale: combinare fondi piatti, colorati fino all’assurdo e ornati ( da scritte, crittogrammi, motivi floreali ), con sagome e manichini di forma umana, oppure con mostruosi animali che affiorano dall’inconscio ( o da un film dell’orrore??? ). Ne risulta un linguaggio tutto giocato sulle relazioni visive tra moda, design, pittura antica, cinema, e immagini pubblicitarie di grande forza comunicativa e immediatezza, pieno di ironia e di un autocompiacimento ai limiti dell’edonismo. Ma se egli si fosse fermato qui ne sarebbe risultato un campionario della stupidità umana fine a se stesso. La sua operazione è più profonda e, per chi la voglia comprendere, mira al cuore dei grandi problemi esistenziali. Sotto l’apparente disimpegno illustrativo covano enigmi cruciali, come nei dipinti metafisici di De Chirico, che riaffiorano dalla memoria rivisitati in forma di manifesti cinematografici ( intatti, non rotti e sfregiati come in Mimmo Rotella ) e riprogrammati sui grandi conflitti attuali. La computer-grafica aggiunge, nella sua aderenza e accettazione totale ai mezzi di riproduzione forniti dall’età contemporanea e dalla moderna tecnologia, quel tocco di volgarità e di repulsione tattile che, mentre ci disturba, riscatta le sue opere dal rango dell’illustrazione al momento della denuncia della civiltà dei consumi. |
Gran teatro del mondo di Enrico Mascelloni Gran teatro, quello di Alessandro Graziani, laddove egli mette in scena Dei e Mostri con la nonchalance di chi sa percepirne la leggerezza…visuale. Che Budhda possa indossare una giacca di ottimo taglio o inforcare un paio di occhiali a specchio, sembrerebbe un tassello tra gli altri nel gioco della manipolazione delle immagini, a cui il computer ha concesso la chance di essere ormai alla portata di tutti. Ma non è alla portata di ogni volonteroso manipolatore la conoscenza vissuta del mondo e delle sue culture e soprattutto la capacità di trasformarla nel Gran Teatro del Mondo. Dietro l’infinita manipolabilità di ogni immagine preme la realtà della propria vita e il sedimento di una cultura originale; sono in fondo quest’ultime a misurare l’efficacia del racconto che va in scena in ogni opera di Graziani. Chi afferma che nascendo a Napoli si è condannati a restare napoletani per sempre, evidentemente non mente e Graziani conferma tale legge a oltranza, giacché la sua formazione cosmopolita (ma Napoli o sa essere cosmopolita o è un refuso folklorico) , le sue scelte e i suoi mestieri sembravano condurlo ineluttabilmente altrove, com’è evidente nel trasferimento a Milano per occuparsi di moda o nella scelta del buddismo, che è, almeno sul piano della sua fruizione esistenziale, la religione più lontana dal cattolicesimo martiriologico e drammatizzato che è sempre stato in auge sotto il Vesuvio. Ma Graziani torna a Napoli da artista, e lo fa entrando con naturalezza (o quasi) nei quadri del nonno, Eugenio Viti, uno tra i protagonisti maggiori della pittura napoletana tra fine ottocento e inizio novecento. Che egli sappia servirsi dell’ironia dosandone attentamente gli effetti, pare evidente sin dal primo impatto visuale, laddove costruisce insieme al nonno una coppia davvero strana ma anche coesa, giacché tende costantemente all’unità. L’altra coppia fissa dell’immaginario di Graziani è all’insegna della polarità ironia-drammaturgia, tantoché è in opera una drammaturgia inevitabile, giacché rappresenta coloro, come Cristo e Buddha, che segnarono a fuoco i destini del mondo. Tra le molteplici possibilità di rappresentazione religiosa, egli mette dunque in campo i due personaggi che nella storia umana e nella storia dell’arte hanno saputo più di ogni altro dare vita a rappresentazioni innumerevoli, che erano la rappresentazione della propria vita: nelle chiese europee come nei monasteri del Gandhara o della Cina della dinastia Tang, la storia di Cristo e quella di Buddha hanno riempito kilometri di pareti e dato vita ai più articolati complessi scultorei, sino a diventare le storie per eccellenza al cui confronto ogni altra storia, fosse pure quella del più sorprendente evento mondano, ne sarebbe poco più che la periferica decorazione. E persino quando ritorna nei dipinti di Eugenio Viti, come in Pratypalayati (Attesa), tra i suoi lavori più belli, di forte tensione visionaria e drammatica, l’ironia si manifesta in tutta la sua originalità: è fredda, straniante, spigolosa e tutt’altro che portata alla risata liberatoria. Tra ironia e dramma, i due poli costanti della cultura napoletana e in specie di quella visiva, s’interpone il tempo rovesciato della visione, che sdrammatizza il racconto e trasforma l’ironia in un espediente drammatico. Dopo aver visto apparire di tutto, si è ben certi che non accadrà più nulla, o per meglio dire che in fondo, nel gran teatro del mondo, non è mai accaduto nulla che non fosse superfluo. In tal senso l’arte di Graziani è davvero tra le più conseguenti rapsodie buddiste in cui mi sia mai imbattuto nella cultura contemporanea, dove il buddismo non difetta certo di adepti. Da artista che sa pesare la sostanza delle cose, egli non cerca il punto in cui l’opera, come il corpo-spirito del bodisatthva, si smaterializzi attraverso una meditazione trascendentale, ma anzi riempie il quadro di visioni assai poco trascendenti, come bei corpi femminili nudi, mise eleganti, macchine eccellenti e quant’altro sappia coniugare eleganza, bellezza e sorpresa. Buddha e Cristo come cose tra altre cose sono prima di tutto immagini che scorrono e si dissolvono come ogni altra immagine. A dissolverle provvede la cascata d’immagini in cui siamo tutti immersi e Graziani non se ne preoccupa troppo, la qual cosa è un’ulteriore astuzia…buddista, oltreché una qualità del proprio linguaggio.
Per quanto Alessandro Graziani ami le rappresentazioni paradossali, condite di miti e mostri, ogni paradosso sembra potersi riallacciare a un viaggio concreto, a un incontro reale, all’approfondimento di una cultura. Giacché non vogliamo certo affermare che gli sia apparso Gesù o che viaggi in macchina con esseri mostruosi e con un bronzo di Riace, si pretende più prosaicamente di sottolinearne la dimestichezza con le culture che mette in campo e con i loro protagonisti. In altre parole si afferma che le opere in esame sono quelle di chi ha esperito luoghi e mestieri diversi, maturando un certo eclettismo della visione. L’ironia e la drammaturgia che dispiega nelle sue opere contengono una quota di vissuto diretto che rende credibile la visione più spericolata. Infatti, in esse, si è subito catturati da ciò che, con una terminologia più teatrale che visuale, o forse piuttosto cinematografica ricordando il passato da cinefilo dell’artista, chiamiamo “messa in scena”: ci lasciamo galleggiare in essa e se abbiamo bisogno d’interpretarla a fondo dobbiamo fare i conti con storie antiche e complesse quanto la Storia con la S maiuscola. Ma non è necessario, giacché per godere di una visione originale è sufficiente liquidare la zavorra dei luoghi comuni e ribadire quell’atto di sapere galleggiare nella sua prepotenza visuale. |
Alessandro Graziani di Vera Agosti (su Exibart) Le opere di Graziani sono lucide icone della modernità, nelle quali l’artista, eclettico e poliedrico per formazione ed esperienza, inserisce il suo sapere e il suo pensiero. Egli osserva con occhi affascinati ciò che lo circonda, il rutilante mondo della moda e del lusso, del bello che piace e fa tendenza; ma la sua anima d’artista amalgama forme e colori con sguardo disincantato, illustrandoli in performance ardite, decisamente personali e sorprendenti per noi che lo ammiriamo, chiedendoci quale sia la riflessione che ci viene suggerita. Perché la meditazione esiste, è insita nelle opere stesse al punto che non sappiamo dire se amiamo maggiormente lo sfondo o la figura che campeggia nell’opera, o il significato vero di ciò che vediamo; ci chiediamo pertanto quale relazione ci sia tra un colore e una forma, una forma ed un oggetto, un oggetto e il colore deciso dall’artista. Lampante è l’ironia smaliziata e dissacrante di Graziani. I suoi lavori sono brillanti contaminazioni pop della nostra epoca e soprattutto della nostra spiritualità. L’artista fa rivivere personaggi del passato, della storia e della religione, calandoli in un ambiente contemporaneo in cui si inseriscono perfettamente a loro agio, assumendo look e pose adatte alla situazione: giacca e cravatta in tinta, completi sportivi, jeans e bandane. Egli sfrutta appieno le sue conoscenze di stilista e la sua esperienza fotografica, non disdegnando l’utilizzo del digitale, ottenendo effetti unici, talvolta di grande simpatia, ma più spesso di spiazzante connotazione induttiva. Innanzitutto il colore: forte, deciso, vibrante e pieno di vita; laccato ed esplosivo nei toni caldi, vivace e persino spiritoso nelle tonalità fredde. Le sue tele sono terra di confine tra la moda e l’arte, la storia e l’attualità; il pittore ci indica che non esiste una dicotomia tra l’una e l’altra, ma piuttosto una simbiosi carica di significati e di anti-significati culturali, meritevole di essere indagata e messa alla prova coi meccanismi del pensiero postmoderno. Ed ecco un francobollo: un’idea, un’impronta, un rettangolo in cui il color lilla acceso diventa fuoco, calore, sapore di cose antiche e quando il ritratto emerge dirompente dallo sfondo siamo pronti ad accoglierlo. Ed ecco l’automobile di lusso, oggetto del desiderio per milioni di uomini, circondata come una star da figure inquietanti, interpretazioni postmoderne di personalità universali, che volenti o nolenti ci spiazzano e ci procurano qualche pensiero ed emozione. Una croce sorge dall’acqua col suo Cristo palestrato, reminiscenza di una Venere nata dalla spuma del mare, mentre una motocicletta lo attende solitaria sulla spiaggia di un moderno paradiso terrestre. Una Nefertiti bellissima, minimal e provocante, ci osserva con sguardo corrucciato avvolta da un color di pesca rassicurante e vellutato. Si tratta di un sogno? E’ l’affascinante esplosione dei colori, l’amalgama spettacolare dello sfondo che ci dona sollievo e, mentre ci rilassiamo, il pensiero va all’autore che ha voluto farci uno scherzo visivo…sorridiamo e ci ritroviamo nostro malgrado a dargli ragione. |
Colloquio tra Laura Iasiello e Alessandro Graziani 1- Alessandro Graziani le tue esperienze giovanili sono relative al periodo post sessantottino: come metti in relazione quel periodo al momento storico attuale? A mio parere sia pure sotto etichette collettive apparentemente omologanti tipo” comunisti, fascisti, borghesi o dandy” quello a cui tu ti riferisci e stato un periodo di grande anarchia e individualismo, intesi come ricerca di uno spazio personale in cui potersi esprimere liberamente. Ciò creava un grande fermento creativo con un enorme effetto ricaduta nella musica, nel cinema, nell’arte, nella moda ecc… Oggi invece sotto il giogo del dio mercato e dei media al suo servizio c’è un forte appiattimento ed omologazione di desideri e comportamenti, ciò riduce fortemente le risorse creative della società. 2- Ti sei interessato per tanti anni di moda, sei stato allievo di Gianfranco Ferrè e stilista di moltissime aziende italiane ed estere: cosa ti ha lasciato questo mondo? Spirito di ricerca e innovazione, professionalità e metodo, capacità progettuale e forse un’eccessiva velocità, per lo meno rispetto ai tempi dell’arte. È evidente che nei miei lavori il tratto del designer viene utilizzato per destoricizzare i personaggi e ricollocarli nel presente. 3- Hai avuto un nonno influente nel campo dell’arte, ricordiamo tutti Eugenio Viti: la creatività è stata quindi tramandata? Bella domanda! Si dice che il cromosoma salti una generazione. Non è vero, mia madre era molto creativa. Ma se alla rassomiglianza fisica corrisponde anche una rassomiglianza interiore, allora potrebbe essere vero, dato che quella fisica è evidente, vedi l’opera Punarjanman. 4- Nella mostra Anityani Mandalani la figura femminile è una costante, anche nei successivi lavori è un elemento fondamentale. Qual è il tuo rapporto con le donne? Per prima cosa è un rapporto di grande amore. Ma anche di grande stima. Ne ho amate moltissime e tutte mi hanno insegnato qualcosa, si può dire che sono state le mie educatrici. Per quanto riguarda la mostra A.M. la ridondante spudorata presenza di nudità femminili è il tentativo estetizzante di riscattare l’essere unicamente oggetto del desiderio e di restituire dignità al corpo femminile in quanto contenitore di un’anima. La rappresentazione della nudità ha la funzione di sdrammatizzare l’aspetto erotico del corpo. Al contrario il coprire i genitali induce alla curiosità ed al desiderio erotico. C’è anche un po’ di polemica con la moda attuale che diventata a tratti volgare ed esibizionista. 5- Alla base della tue opere c’è una ricerca e conoscenza delle scritture antiche. Perché inserisci questi elementi? Ricerca si. Conoscenza no. Le paleoscritture rappresentano le prime forme di rappresentazione grafica di oggetti o concetti, come tali io le identifico come primitive forme artistiche. Ancora oggi i maestri di scrittura giapponesi sono considerati veri e propri artisti. 6- Come mai questo dialogo con l’antico e il moderno? I miei quadri vivono sempre nel presente, ma nel presente sono sempre sintetizzati i tre momenti illusori di passato, presente e futuro. Così dicono gli illuminati del passato e cosi confermano i fisici contemporanei. Il tempo come noi lo conosciamo è una convenzione. Cito Lao Tsu :” Quando credi di osservare il tempo, in realtà stai osservando il mutamento”. 7- Un Buddha in 3D vestito all’occidentale, un Gesù surfista…che rapporto hai, è che cosa è per te la religione? Un rapporto conquistato tardivamente. Più precisamente quando ho incontrato maestri che me ne hanno spiegato onestamente il senso e la funzione. Cioè come strumento di felicità e autorealizzazione secondo l’intenzione sincera dei loro fondatori. Non quindi come strumento di colpevolizzazione e autoflagelazione come spesso viene divulgata dal clero ai fini di potere e controllo sui popoli. Personalmente sono buddista, quindi ateo, quindi impossibilitato a delegare il mio destino a entità terze, e totalmente responsabile (non colpevole) delle mie azioni. Quando sono in particolare forma riesco ad agire secondo il consiglio:” Piuttosto che impegnarvi a non fare del male, sarebbe meglio vi impegnaste a fare del bene”. Ma questo mi accade assai di rado, poiché tra il dire e il fare c’è di mezzo… 8- I tuoi quadri rittraggono delle “situation commedy” che hanno come protagonisti esponenti politici, religiosi, divinità, e miti greci ed egizi. È un modo pungente per dire la tua alla società o una nuova satira? C’è la satira, c’è l’analisi, c’è un garbato e simpatico suggerimento di una nuova felicità “sostenibile” più adatta al nostro tempo. In un mondo che ha sostituito il profilo economico e/o professionale a quello umano, cioè il personaggio alla persona, ricreare una sana dialettica tra queste due funzioni dell’esistere ritengo sia terapeutico. Non dico che sia un lavoro facile, ma credo sia funzionale ed indispensabile all’alba del terzo millennio in cui gli scenari del presente sono un po’ cupi e per conseguenza ancor più quelli futuri. Poiché sono un uomo ignorante delle cose del mondo cito un grande maestro, il Buddha:”Se vuoi conoscere gli effetti che stai vivendo nel presente osserva le cause che hai posto nel passato, se vuoi conoscere gli effetti del futuro osserva le cause che poni nel presente”. 9- Sei scollegato da qualsiasi influenza artistica: da cosa parti per creare un’opera? Parto da un’idea o un concetto e poiché come voi dite sono un visionario tutto ciò si trasforma in una visione. Quando mi metto all’opera, questa è già completa nella mia mente, tant’è che devo realizzarla rapidamente o prendere appunti, altrimenti in breve tempo si vaporizza. Quando rifletto sulle cose del mondo o della mia vita, che mi piacciano o no, compaiono delle immagini che si compongono naturalmente, tratte dal mio fardello culturale-esperienziale. L’ossessiva personale tendenza all’armonizzazione degli elementi contrapposti fa il resto. Un conflitto senza conflittualità, se così si può dire. Edonismo e spiritualità come scrivono di me alcuni critici. Cazzate e contenuti profondi come penso io. 10- Come hai scoperto il digitale, e il PVC come supporto di stampa? Non ho scoperto niente, semplicemente utilizzo il medium più adatto alle mie esigenze rappresentative. Non sono in alcun modo interessato ai mezzi e neanche li so usare bene. Tant’è che quasi sempre lavoro in équipe. Io piego il mezzo ai miei scopi e non mi lascio strumentalizzare da esso. Se i miei occhi potessero disegnare e l’aria fosse un supporto stabile userei occhi e aria. 11- I colori brillanti e le piante tropicali dei tuoi quadri hanno il profumo di posti esotici! Tra i vari viaggi hai deciso di fermarti a Rio De Janeiro vivendo alternativamente a Napoli: tutto ciò ha un influenza importante nei tuoi lavori? Certamente si! La mente attinge al proprio vissuto, alle proprie emozioni e la mia non fa differenza. 12- Con questo ciclo di mostre hai raccontato la nostra società, vizi e virtù compresi: il tuo motivo d’interesse resterà sempre l’uomo? Cosa riserveranno i futuri lavori? Il mio interesse per l’essere umano e per il conseguimento della felicità è e sarà sempre centralizzante. L’uomo è protagonista, specchio e testimone della realtà. È quindi sintesi perfetta del “Tathata” vecchio sanscritismo che significa:”l’essere così delle cose”, cioè l’osservazione dei fenomeni senza giudizio. E quindi rappresentare l’uomo significa raccontare l’universo, per lo meno per la parte che ho conosciuto fin’ora. Quindi non posso prevedere cosa farò in futuro perché dipende da quanta parte di universo riuscirò a scoprire da questo momento in poi. |